Illustrato del 22-12-1979
IL PRESEPE A NAPOLI

Betlemme del Vesuvio - II parte

(FRANCO MANCINI)

Forse allo scopo di stimolare una più intensa partecipazione del pubblico, tra il XVI ed il XVII secolo, gli abiti prescelti per rivestire i pastori, secondo una consuetudine invalsa in teatro, ricalcano le fogge del tempo e ciò, naturalmente, contribuisce ad accentuare il realismo dell'insieme.


Una classica tarantella sul presepe napoletano. Napoli, Collezione privata
Foto di Rocco Pedicini

Pressappoco negli stessi anni, una spinta decisiva in tal senso viene dalla scenografia del presepe napoletano che, per ottenere uno sfondo appropriato alla minunziosa descrittività anatomica, dei pastori, utilizza brani del paesaggio circostante, ricostruiti su scala ridotta con esasperante verosimiglianza.
L'unico elemento di contrasto in questi scogli -non di rado collocati in maniera da inglobare lo sfondo reale dei monti irpini avvolti in un bianco manto di neve- era costituito dalle vestigia di un tempio utilizzate al posto della grotta.
Un arbitrio filologico che, mentre lascia trasparire le istanze della temperie neo-classica alimentata dagli scavi in atto tra Ercolano e Pompei, intende al tempo stesso rappresentare metaforicamente il germogliare della nuova religione sulle macerie dei culti pagani.

Un analogo intento si riscontra del resto nelle colonne del tempio dei Dioscuri incastonate nel prospetto della chiesa dei santi Pietro e Paolo dove, come osserva Tommaso M. Gallino, "il simbolo è tangibile realtà: sulle rovine del paganesimo si alza la costruzione cristiana".

Anticipato già nel secolo XVI dal complesso ligneo di Giovanni da Nola per la chiesa di San Giuseppe dei Falegnami, questo anacronismo di sapore archeologico, che pur risultando meno suggestivo della grotta consentiva una migliore disposizione dei pezzi e ne facilitava l'illuminazione, era destinato ad avere largo seguito nei presepi 'colti'.
Va però ricordato che, forse allo scopo di evitare ogni possibile riferimento agli usi degli antichi culti mitriaci, in molte raffigurazioni presepiali anche estranee all'area napoletana, la grotta era stata da tempo sostituita con una rustica capanna. Un surrogato divenuto consuetudine se, in pieno ottocento, Basilio Puoti, dalle pagine del suo Vocabolario domestico, avverte che "per Presepe si deve intendere l'imitazione di un paese in rilievo, dove è ancora una capanna, che rappresenta quella in cui nacque nostro Signore".
Ciononostante la grotta evangelica non scompare del tutto.
A parte il presepe di San Domenico Maggiorere realizzato nel 1507 da Pietro Belverte - al quale si deve ascrivere l'introduzione di un altro elemento spurio, la Taverna o Diversorium - ad essa restarono fedeli alcuni pregevoli complessi degli ultimi secoli e ad essa sono legati ancor oggi tanti modesti scogli di fattura popolare.
Ma, quale che fosse la scelta deIl'ambiente per la Nascita, nella realizzazione non ci si discosta dall'impianto realistico, perseguito tenacemente spesso con sofisticate 'citazioni' figurative come quella messa in atto dal sacerdote Domenico Mainetti che, per i suoi paesaggi, si ispirava ai dipinti di Salvator Rosa e Micco Spadaro.
In tema di scenografi 'stagionali', se si vuol prestar fede ad una poco attendibile testimonianza, bisogna ricordare lo stesso re Carlo il quale, secondo l'Onofri, "si dilettava ad impastare i mattoncini, a cuocerli, a disporre i soveri, formar la capanna, l'architetture, le lontananze, situarvi i pastori".
In realtà, mentre il presepe di corte, senza distogliere le mani regali da altre faccende, veniva predisposto dagli scenografi del San Carlo - da Vincenzo Dal Re a Giuseppe Baldi - queste composizioni in sughero e cartapesta di solito erano affidate, da una committenza più o meno blasonata, agli stessi pastorari - Cappiello, Mosca, Gori - e più spesso ad architetti di chiara fama.

Enorme richiamo esercitarono, ad esempio, i presepi di Muzio Nauclerio e di Niccolò Tagliacozzi-Canale che, secondo il Napoli-Signorelli, tra il 1745 ed il 1750, diedero vita ad una accanita gara prefiggendosi con le loro mirabolanti invenzioni sceniche di "deprimere il competitore, e tirare la moltitudine nelle loro case".
Al Napoli-Signorelli si devono altre notizie sugli splendidi presepi allestiti dal pittore Nicola Fazio per casa De Giorgio e per due ricchi mercanti di seta, i fratelli Ruggiero, i quali ogni anno facevano montare nella loro abitazione a Seggio di Porto "un presepe che incantava colla visione prospettica e lontananze, con la copia ed eccellenza delle figure scolpite e modellate dai più celebri professori, con la richezza dé vestimenti, co' pezzi di antica architettura che talvolta v'inserivano, e con le campagne sparse di rari edifici rurali e di rupi, e con minutezze naturali ed artificiali di ogni specie per arricchire per tutte le vie l'imitazione".

Mentre scarseggiano le testimomanze iconografiche relative all'allestimento presepiale, è possibile trovarne qualche descrizione, più dettagliata, nei resoconti dei viaggiatori stranieri, spesso affascinati da questa "fanciullagine" artistica.
I motivi trattati con maggiore frequenza si riferiscono a presenze anacronistiche come quella del Vesuvio, vero o dipinto, talvolta assiso negli sfondi di queste rappresentazioni frantumate in mille episodi di vita popolare, estranei al racconto evagelico, che consentivano persino l'intervento della lepida maschera di Pulcinella.


Un Pulcinella da presepe risalente alla fine del '700. Questo pezzo è considerato un "unicum" di enorme interesse. Collezione privata
Foto di Mimmo Iodice

Altre osservazioni sono rivolte all'abitudine di cospargere di vino l'ambiente della taverna, un espediente messo in atto dallo scenografo del San Carlo Raffaele Gentile per il presepe del notaio Sorvillo, che sembra anticipare, se non il teatro degli odori di marca futurista, almeno i criteri seguiti al Théâtre Libre da André Antoine il quale, come noto, se doveva rendere una macelleria non esitava ad appendere in palcoscenico un autentico bue squartato.

Senza avventurarsi in altri accostamenti con il moderno, è d'obbligo però un ultimo parallelo con gli spettacoli dell'epoca, dall'Opera buffa alla originale produzione di Domenico Barone, marchese di Liveri e regista ante litteram per gli svaghi di re Carlo.
Questa "celebrità teatrale non esportata nel regno di Ferdinando", atteggiando artisticamente un numero strabocchevole di attori e comparse, formava dei 'quadri' plastici, molto simili ai soggetti trattati nelle tele del Bonito e del Traversi, nei quali si può cogliere il medesimo gusto che anima i gruppi delle figure da presepe.

Pertanto, vorremmo concludere affermando che, a parte i suoi intrinseci valori, il fenomeno presepiale - spesso integrato dalle musiche di noti maestri di cappella e dal movimento tentato nel 'presepe ca se fricceca' - assume un interesse eccezionale per la storia dei teatro napoletano del quale fornisce una sorta di colorito ed insostituibile ologramma.